Il confine sottile tra legge e rispetto: riflessioni da un video che scuote la coscienza
- Aurora Redville
- 18 giu
- Tempo di lettura: 3 min
È da giorni che una sensazione scomoda mi accompagna, come un rumore di fondo che non si spegne. Ma oggi, dopo aver visto l’ennesimo video condiviso dalla pagina de La Repubblica, l’indignazione ha preso il sopravvento. Non si tratta solo di cronaca o politica. È qualcosa di più profondo, che ha a che fare con il rispetto, la dignità e il senso di umanità.
A Manhattan, negli Stati Uniti, uno degli uomini politici più in vista dell’opposizione, Brad Lander – attuale comptroller e candidato a sindaco di New York – è stato arrestato all’interno di un tribunale per l’immigrazione. Accompagnava un imputato fuori dall’aula quando è stato bruscamente fermato dagli agenti anti-immigrazione, sbattuto contro un muro e ammanettato. L’arresto arriva a pochi giorni di distanza da un episodio simile che ha coinvolto il senatore democratico della California Alex Padilla.
Lander non era lì in veste di attivista radicale o di contestatore violento. Era presente in qualità istituzionale, a supporto di una persona coinvolta in una procedura legale. Eppure è stato trattato come un sovversivo. L’episodio fa emergere, ancora una volta, una questione che non riguarda solo la politica interna americana, ma il modo in cui le società cosiddette democratiche stanno progressivamente anestetizzandosi di fronte alla disumanizzazione.
Personalmente, non voglio fare un discorso partitico.
Il punto, qui, è un altro: il rispetto. Il rispetto per le persone, a prescindere dal loro status amministrativo. Chi non possiede un permesso di soggiorno non è automaticamente un criminale. Spesso si tratta di persone che cercano semplicemente un’opportunità per lavorare, per mandare avanti la propria famiglia, per sopravvivere in un sistema che li esclude fin dalla partenza.

Durante il periodo che ho trascorso a San Diego, ho visto con i miei occhi le lunghe file di cittadini messicani che ogni giorno attraversavano il confine. Avevano i documenti in regola, sì, ma quella quotidiana traversata era comunque il simbolo di una vita divisa, logorante. Uomini e donne che si svegliano all’alba, affrontano ore di attesa, faticano tutto il giorno e tornano a casa solo per ricominciare. Non si lamentano, non alzano la voce. Vivono. E lo fanno con dignità.
E allora mi chiedo: cosa ci autorizza a trattare queste persone come se fossero invisibili? Come possiamo accettare che il potere venga esercitato con tale arroganza, travestito da sicurezza? Cosa succede quando chi dovrebbe garantire la legge ne abusa per affermare se stesso? Non parliamo di ordine, ma di controllo. Non di sicurezza, ma di sopraffazione.
Non è un caso isolato. È un segnale. Un altro pezzo di un puzzle più ampio, in cui il rispetto per la vita umana sembra valere meno di un timbro su un passaporto. E ciò che fa più paura è il silenzio con cui tutto questo avviene. Come se fosse normale. Come se fosse accettabile.
Già da bambina mi è stato insegnato cosa significhi rispettare gli altri. Non perché me lo abbia spiegato la scuola, ma perché l’ho visto a casa. Perché l’educazione al rispetto si trasmette con l’esempio, non con le leggi. E penso che sia proprio da lì che dobbiamo ripartire: da come parliamo ai nostri figli, da come raccontiamo loro il mondo, da come insegniamo che l’umanità non è un privilegio, ma un diritto.
Oggi più che mai sento il bisogno di parlare di libertà. Non quella astratta, da slogan, ma quella che si costruisce nella quotidianità, nel modo in cui guardiamo l’altro.
La libertà vera esiste solo se è reciproca, se è estesa anche a chi non ha cittadinanza, a chi non parla la nostra lingua, a chi ha vissuto un dolore che non possiamo capire.
Il mio unico desiderio, ora, è che tutto questo si fermi. Che qualcosa o qualcuno, ci riporti sulla strada dei giusti.
Perché se perdiamo il senso del rispetto, perdiamo anche il senso di noi stessi.
E a quel punto, nessuna legge, nessun confine, potrà più salvarci.
La vostra Aurora Redville
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