Daniel Craig, il desiderio che sfugge: "Queer" di Luca Guadagnino raccontato senza maschere.
- Aurora Redville
- 30 apr
- Tempo di lettura: 3 min
Il nuovo film del regista italiano tratto da “Queer” di William S. Burroughs, l'intervista mancata e le domande che (forse) avremmo voluto sentire.
Ammetto che da quando ho visto l'intervista di Fabio Fazio a “Che tempo che fa” ci ho pensato:
Mettiamo il caso che ti trovi davanti Daniel Craig. Lui, in carne, ossa e occhi azzurri. Uno degli uomini più desiderati del pianeta. È lì, a pochi metri da te. Respira. Sbuffa. Sorride (quasi). E tu cosa fai? Gli chiedi di James Bond. Di nuovo.
Se avessi avuto io quell'occasione - sedermi davanti a Daniel Craig per un'intervista - non avrei certo parlato di smoking stirati e Aston Martin. Perché Daniel Craig non era lì per ripassare la sua gloriosa carriera da 007. Era lì per presentare Queer, il nuovo film di Luca Guadagnino. Un film che non parla di missioni segrete o cocktail agitati. Queer è il desiderio che evapora. È una storia d'amore che non osa nemmeno chiamarsi amore. È un tuffo a occhi chiusi nel nulla.
Daniel interpreta Lee, un americano alla deriva, vagamente post-atomico, perso in una Città del Messico che sembra uscita da un sogno sudato. Lee ha fame d'amore ma non lo sa dire. O forse non osa. Incontra Allerton (Drew Starkey), giovane, bello, distante come solo i miraggi sanno essere, e parte un viaggio che non è altro che un lento naufragio. Paranoia, solitudine, ossessione. Benvenuti nell'inferno dolce di Guadagnino.
Ora, vogliamo parlare del fatto che Fazio, durante l'intervista, non ha minimamente menzionato Love is the Devil? Quel film incredibile in cui Craig ha interpretato un artista omosessuale molto prima che Hollywood si svegliasse dal suo letargo inclusivo? No, eh? Meglio restare sul sicuro, Bond, Bond, e ancora Bond (che peraltro io adoro), d'altronde, perché rischiare una domanda interessante quando si può navigare tra le acque tranquille dei cliché?
Io, invece, un paio di domandine diverse gliele avrei fatte. Tipo: "Daniel, come si sopravvive al desiderio non corrisposto senza finire a scrivere romanzi disperati in stanze d'albergo sudicio?" Oppure: "Daniel, sei mai stato Allerton nella vita di qualcuno?"
E, già che c'ero: "Daniel, hai idea di quanta gente abbia pensato di mollare tutto e venire in Messico a cercarti, dopo aver visto questo film?"

Scherzi a parte, Queer è un film che ti si infila sotto pelle. Non urla, non piange, non strappa lacrime facili. Ti lascia lì, seduto nella tua poltroncina, a chiederti quante volte abbiamo inseguito anche noi un amore impossibile, senza trovare mai le parole giuste. Daniel Craig riesce a raccontare tutto questo senza bisogno di grandi gesti o discorsi. Solo con una smorfia, uno sguardo, una pausa di troppo.
Alla fine della fiera, Queer è un film che non conquista al primo sguardo. Devi starci dentro, lasciarti scivolare, resistere alla tentazione di chiedere spiegazioni. Esattamente come certi amori: inspiegabili, inconcludenti, eppure impossibili da dimenticare.
E sì, lo confesso: se fossi stata io a intervistarlo, probabilmente sarei finita per offrirgli un mojito e chiedergli di raccontarmi tutte quelle storie che, nei talk show, non può mai raccontare. E probabilmente gli avrei chiesto: "Nel film, l'amore è come una trappola. Un amore irraggiungibile, che fa male. Come ti sembra la sensazione di trovarsi a vivere in un personaggio che non ha davvero nessuna via di uscita? Ti ha mai portato a riflettere sulla tua idea di amore e sul significato del desiderio?"
Perché certe occasioni non vanno solo prese: vanno vissute fino in fondo. Con un sorriso ironico. E magari con una domanda in più.
La vostra Aurora Redville
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